Tredici ragioni per morire e nemmeno una per vivere

Pubblichiamo le osservazioni di una giovane docente in merito ad alcune serie televisive molto gettonate tra i giovani adolescenti. Una acuta analisi dell'orizzonte culturale dei nostri studenti.



Quasi in contemporanea con il tormentone della Blue Whale, si è diffusa tra i ragazzi la serie americana Tredici. E’ la storia di Hannah Baker, adolescente che ha deciso di suicidarsi, dopo aver registrato tredici cassette, in cui racconta le ragioni del suo gesto, dedicando ogni cassetta ad una persona. Le puntate seguono l’ascolto del testamento da parte di Clay, amico di Hannah, con continui flashback che mostrano la vita della ragazza. Molte le forzature nella trama, a volte irrealistica, e nella sceneggiatura, esagerata e a tratti grottesca, come del resto ci aspettiamo da una teen drama; ma ciò che preoccupa è altro. Le principali critiche mosse alle serie sono state tre. Per prima cosa molte delle ragioni che hanno portato Hannah al gesto estremo sono accidenti piuttosto comuni tra i giovani, anche se forse più negli USA che in Italia (diffusione di foto e scritti privati, incomprensioni, prese in giro e dicerie...). I motivi più gravi, due episodi di violenza sessuale (uno ai danni di Hannah, l’altro ai danni di una ragazza della scuola ad opera di un compagno) sono rappresentati senza censure, in un modo assolutamente inadatto all’età a cui è rivolta la serie - seconda critica - tanto da risultare volutamente sgradevoli, al pari della scena in cui si vede la protagonista tagliarsi le vene nella vasca da bagno, senza lasciare nulla all’immaginazione. L’ultima critica riguarda la romanticizzazione del gesto suicida, presentato come una forma di vendetta nei confronti di tutti quelli che hanno fatto del male ad Hannah, cosa che - secondo alcuni - potrebbe spingere all’emulazione.
Il quadro che emerge della realtà in cui i giovani sono immersi è sconfortante, a partire dalle figure adulte: famiglie assenti, padri padroni, madri dirigiste, genitori incapaci di relazionarsi tra di loro se non per la cura materiali dei figli, professori che reagiscono ai suicidio tappezzando la scuola di cartelli motivazionali e organizzando fastidiosi incontri di prevenzione. Unico esempio positivo è rappresentato dal padre e dalla madre della protagonista, ancora innamorati e realmente interessati al bene della figlia e alle sue passioni. Hannah infatti ha un bellissimo rapporto con i genitori, non li rifiuta a prescindere secondo un atteggiamento comune a molti adolescenti. Tuttavia in una delle ultime cassette afferma che a nessuno importa di lei e che non ha più nessuna ragione per vivere, il che è del tutto falso. Non solo ha l’affetto sincero dei genitori, ma anche l’amicizia con alcuni ragazzi e soprattutto l’amore di Clay, che la tratta sempre con rispetto ed è sinceramente innamorato di lei. Non solo Hannah non pensa minimamente alla sofferenza che provocherebbe a chi le vuole bene, ma addirittura questi rapporti non costituiscono nemmeno una ipotesi per rimanere attaccata alla vita. In lei il desiderio di essere amata è ridotto alla ricerca dell’approvazione sociale ed alla salvaguardia della propria reputazione. Non si rende conto che c’è chi la ama per quello che è indipendentemente dalle dinamiche di gruppo. Hannah considera inoltre l’episodio della violenza sessuale come una catena di eventi dovuti alla fama di ragazza facile che le è stata a torto attribuita.
Nell’ultima cassetta la protagonista afferma di aver voluto dare un’ultima possibilità alla vita, facendosi finalmente aiutare. Però non si rivolge né ai genitori né a Clay, ma allo psicologo della scuola, che in modo totalmente irrealistico le consiglia di dimenticare l’accaduto.
Ciò che spaventa ancor di più è la completa incapacità di rapporto con la realtà e con le persone: la possibilità di perdono non esiste, così come non esiste un vero dialogo che chiarirebbe tante situazioni facendo emergere i sentimenti delle persone; il mondo è fatto di tanti io sostanzialmente soli, incapaci di vere relazioni. Hannah muore perché non ha saputo guardare con lealtà la propria vita. E a questo non viene proposta alternativa, tanto che alla fine viene data notizia che un altro ragazzo della scuola, menzionato nelle cassette, si è sparato in testa.
Sono passati pochi decenni da quando Dino Buzzati in un articolo commentava un fatto di cronaca avvenuto proprio negli USA, che vide protagonista una donna che aveva deciso di suicidarsi, ma squillò il telefono e non lo fece. «Questo episodio - scrive Buzzati - dimostra, meglio che cinquanta trattati di psicologia, che vivere significa aspettare. Finché il domani può portare qualcosa di nuovo o di gradevole, l’uomo nella sua pelle ci sta bene. [...] La signora Mildred Oakes, a Nuova York, credette che la vita non le potesse procurare più niente di buono. [...] Aveva deciso di morire, solo non trovava il coraggio ultimo per buttarsi in fuori. Perché? Perché nella sua disperazione, benché lei non se ne rendesse conto, qualche minuscola speranza restava. Solo che una di queste speranze avesse potuto prendere corpo, manifestarsi in termini concreti!
E il telefono della camera trillò. Chi la chiamava? Un’amica che le voleva bene? L’uomo che ieri l’aveva abbandonata? La ditta da cui era stata licenziata e che ora le offriva di riprenderla? [...] Nella muraglia tetra e inesorabile che era per lei la vita, si era aperto uno sportellino, una finestrella microscopica, un ridicolo spiraglio di speranza, da cui pure veniva a lei un filo esile di luce. Chi la chiamava? Sull’orlo dell’abisso eterno dove stava per sprofondare, quella banalissima curiosità la tirò indietro. Lei si sentì ancora donna, e viva. Non seppe resistere. E fu salva.».
Una prospettiva umana di questo livello è lontana anni luce. Appena prima di porre fine alla sua vita Hannah incontra per caso un ragazzo che la invita a tornare a frequentare il gruppo di poesia che aveva in precedenza abbandonato; lei rimane stupita ma tira dritto.
Di fronte a tragedie come quella del suicidio sono tanti gli atteggiamenti possibili: indifferenza, disperazione, smarrimento, strategie, buoni propositi, senso di colpa. Tutti descritti da Tredici, ma nessuno che sia adeguato. Tutti tranne l’unico che ci fa rimanere umani: tornare a domandarsi perché vale la pena vivere. Accettiamo la sfida di stare di fronte alla vera natura del bisogno nostro e dei nostri ragazzi? Come adulti siamo in grado di proporre e facciamo noi stessi esperienza della positività della realtà?