N.14 - Semi di vita nuova

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Può succedere durante un’interrogazione, terza scientifico, inizio anno, quando una ragazzina, alla canonica domanda, «Quale dei filosofi che abbiamo incontrato finora ti ha interessato di più?», sorprendentemente risponde: «Gorgia». «Perché proprio Gorgia?» «Perché lui dice che tutto è niente. E ha ragione: io non sono niente». Naturalmente, tutta la conversazione prosegue sul filo di questa terribile provocazione. Finché un’altra delle ragazzine interrogate, in lacrime, abbraccia la prima, e le dice: «Ma com’è possibile pensare di non essere niente, che, come dice Democrito, quando gli atomi di cui siamo fatti si sbriciolano non rimane niente? Ci dev’essere qualche cosa di noi che rimane, che resta per sempre!» E le due si candidano a preparare insieme la prossima ricerca di storia…

Oppure può succedere durante un colloquio con i genitori, mamma marocchina, musulmana, che invece di chiedere dei voti e del comportamento e che “mia figlia potrebbe impegnarsi di più” e tutte le altre sciocchezze che si dicono di solito in questi casi esordisce: «Ti ringrazio – dà del tu non per confidenza o per maleducazione, è che proprio il lei di cortesia nel suo modo di esprimersi non c’è – perché per i miei figli sei un padre». Il professore è un po’ spiazzato, ma lei incalza: «Sì, perché quando tornano a casa degli altri raccontano che cosa hanno fatto, di te dicono: “si vede che mi vuole bene”».

Oppure ancora durante uno stage in un’officina meccanica, corso di formazione professionale per manutentori di aeromobili, il ragazzo è molto contento dell’ambiente, di quello che sta imparando, i capi sono contenti di lui, di come lavora, di come si impegna. Ma c’è il “vecchio”. Chissà perché, quasi sempre in un’officina c’è il “vecchio”, quello che sa tutto lui, quello che gli altri non va mai bene niente di quello che fanno, quello che “i giovani d’oggi non hanno voglia di lavorare…” E il vecchio prende di mira il ragazzo, prima richiami, poi rimproveri, poi insulti, lo incolpa di aver fatto male un lavoro che il ragazzo aveva eseguito come lui, il vecchio, gli aveva detto di fare; il ragazzo gli risponde, il vecchio s’inalbera, gli tira dietro un attrezzo. Al ragazzo monta il sangue alla testa, sta per saltargli addosso; poi si riprende, gira sui tacchi, va da un’altra parte. Quando torna a casa racconta tutto, finisce dicendo: «Io non voglio tornare lì, il lavoro mi piace, ma mi conosco, non so se la prossima volta riesco a controllarmi ancora». Però l’indomani mattina prende il suo autobus, va in officina, accetta di provare a stare davanti anche a questa sfida. Intanto i genitori parlano con la scuola, il tutor degli stage interviene, va in officina, si informa, appura come sono andate le cose, con i capi della ditta concordano che in queste condizioni non è opportuno tenere studenti in stage, si salutano cordialmente, il ragazzo la settimana successiva riprende lo stage in un’altra azienda. «Sono contento di aver cambiato – conclude il ragazzo – ma più ancora di essere stato capace di tornare lì, di non essere scappato davanti alla difficoltà».

Ecco, la buona scuola c’è, c’è già, esiste in mille episodi come questi, non ha bisogno che la politica la inventi; ha bisogno che la politica faccia norme che non la soffochino, che la valorizzino, che le permettano di crescere.

PS. E siccome la buona scuola c’è, rinnoviamo l’invito a tutti a raccontarla. Scrivete, scrivete a comunicazione@diesse.org, non fatevi scrupoli se le cose che accadono vi sembrano piccole. «La vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze», scrive Pavese: è lì, in mezzo a «la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, […] il vivere che taglia le gambe» che crescono semi di vita nuova. E se qualcuno pensa di non saper scrivere, mandi due righe con un numero di telefono, qualcuno lo richiamerà e si proverà a scrivere insieme.