N.9 - Il "piacere di insegnare"? Due racconti

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L'anno scolastico è ormai terminato: è tempo di bilanci, e vale sicuramente la pena far riposare lo sguardo sulle esperienze più significative e più positive che abbiamo vissuto, piuttosto che pesare col bilancino tutto ciò che si è fatto o non si è riusciti a fare. Infatti, in un tempo come questo in cui il nostro lavoro è bistrattato dalla società e dalla politica, e anche alcuni colleghi magari non vi credono più e decidono di implicarsi il meno possibile per non ricevere contraccolpi e delusioni dal mondo della scuola, noi vogliamo provare a documentare che è possibile l’esperienza del "piacere" professionale e umano dell'insegnamento. Ribadiamo: con tutta la consapevolezza delle difficoltà e dei problemi di ogni tipo con cui quotidianamente facciamo i conti, abbiamo sperimentato che il travaglio del nostro lavoro non è fine a se stesso, ma è capace di generare esiti tanto potenti quanto inaspettati, sia in noi che negli alunni con cui cresciamo nelle classi. Questo è uno dei motivi per cui la prossima Convention, che si terrà il 20 e il 21 ottobre 2018, avrà come titolo: "Il piacere d'insegnare. Incontri e percorsi per conoscere la realtà".
Ci sembrano un'ottima introduzione a questo tema i racconti sulla dinamica e il lavorio che si sono generati attorno all'esperienza di due diverse 'Botteghe dell'insegnare' proposte da Diesse, tenutesi durante l'anno scolastico appena concluso. Al di là delle differenze derivanti dagli approfondimenti disciplinari che esse hanno affrontato, insieme ai tanti spunti di riflessione presenti, le due esperienze ci hanno impressionato per la forza, la chiarezza e la semplicità con le quali descrivono quanto può accadere e svilupparsi a partire da chi si appassiona al proprio lavoro. Nei racconti emergono, infatti, la scoperta e il perfezionarsi di un metodo che coinvolge gli studenti nell’affronto della realtà, fino al loro cambiamento in termini di competenze, creatività, determinazione e di sicurezza nella vita; emerge la gratitudine per un’amicizia tra docenti, che spalanca con decisione ed entusiasmo alla realtà quotidiana dell’insegnamento, fino al particolare didattico e al rischio di intraprendere insieme nuove strade; emerge, ancora, la forza di una relazione educativa vera con gli studenti che arricchisce anche i docenti. Ecco che si fa strada il “piacere d'insegnare”, appunto.

«Nella lezione della Convention avevo sentito rivolta a me la proposta del professor Milanese (professore ordinario di Lingua e letteratura Latina presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ndr) di “proibire” il vocabolario di latino per tutto il primo anno del liceo. La verifica di questi quattro mesi di scuola mi ha dato l’occasione di paragonarmi con il professore riguardo alla strada da me perseguita per attuare questo metodo, evidenziando quella che ritenevo la maggiore criticità: instillare nel ragazzo una inevitabile rigidità, infondendogli l’idea che la parola non possieda un’ampiezza semantica e che la competenza traduttiva non sia problematica. Mi ha colpita la semplicità con cui il professor Milanese mi ha rassicurata su questa perplessità. Il suo giudizio, da subito riconosciuto vero nella mia esperienza, mi ha pacificata, ridandomi slancio e motivazione, così come la chiarezza con cui il professore mi ha corretta su una certa tipologia di esercizi. Certo, non posso ancora dire se questo approccio del “senza vocabolario il primo anno”, al fine di cominciare a costruire le basi del lessico di base, sia più produttivo di quello che ho sempre adottato. È ancora troppo presto per scorgerne i frutti. Però di una cosa mi sono accorta, facendo una sostituzione in una classe parallela alla mia. Quando ho proposto ai ragazzi di fare la versione di latino che avevano per casa, mi hanno risposto: "Come facciamo senza vocabolario?". Alla stessa domanda i miei alunni avevano reagito diversamente: "Grazie, prof" e si erano messi a lavorare a testa bassa senza nemmeno porsi il problema del vocabolario. Magari i miei hanno acquisito meno conoscenze o competenze di altri, però l’assetto di fronte al latino è un altro: non lo temono, lo sfidano, mettendosi totalmente in gioco e senza ricorrere alla stampella degli strumenti. Se non sanno una parola, si arrabattano, lottano, comunque rischiano, senza dimenticare il rigore. Magari è solo un approccio diverso, che però sta diventando anche un habitus……. un habitus mentale utile per la vita». (leggi il testo integrale)

L'altra esperienza proviene dal mondo della scuola Primaria: «Sono appena tornata dalla correzione delle prove Invalsi di Matematica e sono proprio contenta di come abbiano lavorato i miei bambini e di come si sia rivelata gratificante questa esperienza. Tutto è nato dall’incontro tra la responsabile della Bottega Matematica nella scuola primaria e il mio desiderio di cambiare il modo di fare matematica. Questo convegno è stato per me una rivelazione: finalmente avevo trovato la strada da seguire!!!
Nel frattempo, nella mia classe quinta della scuola primaria è arrivato un nuovo alunno, particolarmente dotato in matematica, che una mattina, mentre stavamo affrontando l’area del triangolo e dovevamo calcolare l’area di sei triangoli simili a questi della figura, invece di applicare la classica formulina, (b x h): 2 e poi moltiplicare per 6 triangoli, ha detto ai nuovi compagni, che a lui veniva lo stesso risultato ma aveva fatto (b x h) x 3!!! Può non apparire una grande scoperta nel mondo della matematica, ma per i bambini della mia classe abituati ad applicare delle formuline, sì. Da questo primo momento è iniziato un lavoro stimolantissimo in cui abbiamo iniziato ad apprezzare le diverse strade per risolvere uno stesso problema. È stato gratificante sia per i più intuitivi, ma anche per i “meno portati” in Matematica, perché nessuno diceva una cosa sbagliata, ma ciascuno poteva raccontare come aveva ragionato ed era sempre interessante.
Il fatto poi che io non sia particolarmente dotata in matematica è stato paradossalmente una grande risorsa, perché questo modo di procedere mi ha coinvolto tantissimo: spesso ero proprio io a risolvere un quesito facendo “la strada più lunga”, e mi piaceva moltissimo, quando i miei alunni me ne indicavano una più breve e alla quale io non avevo pensato.
Ho avuto la conferma che questo lavoro ci aveva preso, quando un giorno, suonata la campanella della ricreazione, invece che correre in giardino per fare la merenda, continuavamo a discutere sul risultato di quel quesito che ci aveva impegnato di più, su quello del quale non eravamo certi della soluzione o su quello che ci era riuscito bene….A farla breve, per la prima volta nei miei venti anni di carriera nella scuola primaria, io e i miei alunni non vedevamo l’ora che arrivasse il giorno della Prova Invalsi di matematica e i risultati che ho potuto notare, correggendo le “domande aperte”, mi hanno confermato la bontà di questo lavoro!!!
Grazie agli amici incontrati, grazie al corso di Matematica! Questa è la strada che voglio percorrere e non vedo l’ora di ricominciare a settembre la prima elementare con questo nuovo modo di fare Matematica
». (leggi il testo integrale)