N. 3 - Fare scuola per incontrare persone

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Quest’anno la Convention Diesse, svoltasi a Castel San Pietro Terme il 19 e il 20 ottobre, ha avuto come titolo Fare scuola nel cambiamento d’epoca. "Fare" è un verbo dinamico che indica qualcosa che si costruisce e che si compie in un dato momento e in precise condizioni. Pertanto, ripensare la scuola in termini di movimento ci pone due questioni: che cosa la scuola ha ereditato, dove la scuola vuole andare. Una scuola in cammino è un’immagine molto evocativa che ben rappresenta la fatica di un viaggio ma anche, si spera, di un felice approdo.

Andiamo con ordine.

Negli ultimi venti anni il sistema istruzione è stato sempre oggetto di interesse di tutti i governi e di tutti i partiti politici, il cui obiettivo primario è sembrato piuttosto identificarsi più con un narcisismo rivoluzionario che con un sano riformismo a partire da una semplice domanda: "di cosa hanno bisogno i ragazzi di oggi?". Nel suo intervento della tavola rotonda d'apertura della Convention, il prof. Nicoli ha definito il nostro un tempo LIMINALE, cioè una zona intermedia tra un’epoca che non è ancora finita e una che non è ancora iniziata, in cui non ci sono solidi punti di riferimento. In periodi come questo nella scuola assistiamo a due tendenze opposte: da un lato il ripiegamento verso tempi idilliaci e irrimediabilmente passati, dall’altro una compulsione diremmo “a stare sul pezzo”, cioè a inseguire ogni moda pedagogico-didattica per rendere più attraente la scuola. A tutti gli specialisti della scuola - che molto spesso non hanno mai messo piede in un'aula - manca un particolare fondamentale: lo studente in carne ed ossa! Prendere coscienza del qui ed ora ci potrebbe aiutare ad osservare la scuola con un aggettivo, usato sempre dal prof. Nicoli, ossia VIVA. Cosa significa? Non dare troppa enfasi a progetti e metodologie, affinchè l’umano possa accadere in tutto il suo splendore. Ecco che ritorna ancora l’eco del significato del medesimo verbo, fare, che ci suggerisce una concezione della cultura capace di muovere le leve vitali della conoscenza.

Da questo punto di vista, il ruolo dell’insegnante è ora più che mai fondamentale. Infatti, egli è una persona immersa nelle contraddizioni della società liminale, dunque piuttosto che cadere nella tentazione di accettare formule all-inclusive calate dall’alto (sicuramente più confortanti e meno disorientanti) deve ripensare a se stesso, alla sua passione e trovare il coraggio di una navigazione in mare aperto, sapendo che Itaca - comunque - esiste.

L’insegnante per primo/a deve accettare la sfida del nuovo, dell’ignoto, nutrire e alimentare le sue speranze per poterle trasmettere. La bella lezione, quella con i "fuochi d'artificio" - ci ha ricordato il dottor Ballerini nel suo intervento - non è sufficiente. Se proviamo a riflettere un attimo, balza all’occhio una facile considerazione, da cui cominciare: tutto quello che noi abbiamo ereditato, in termini culturali e non solo, che idealizziamo quasi fossero delle colonne d’Ercole invalicabili e che, in ultima analisi, consideriamo come un monolite, è stato frutto a suo tempo di contraddizioni e "zone liminali" simili a quelle di oggi, ma soprattutto frutto di tantissima audacia. Perché non fare lo stesso? Perché non essere noi i profeti di questo tempo gravido? Perché non essere creativi e appassionati? Già solo questa prospettiva colora di entusiasmo la cultura, vista come FORZA VIVA in grado di fare comprendere la realtà.

A scuola non si può partire appena dal desiderio di conoscenza, spesso troppo pallido nei nostri alunni; tra i banchi emerge un'altra urgenza, come ci ha sottolineato il dott. Ballerini: “ogni ragazzo ha una questione individuale: 'come faccio ad essere contento?' ”. Non riempire gli studenti/sse di contenuti, presunte competenze, ma di strumenti per comprendere ed accettare le sfide del reale, tutto questo li renderebbe desiderosi di stare bene nel presente sottraendosi magari al rifugio del virtuale.

La soggettività non si costruisce con un sapere confezionato - per quanto completo, tecnico e specialistico - ma sempre con una serie di approssimazioni, tentativi ed errori. Questo passaggio ci consente di agganciarci a quanto sostenuto - sempre durante la tavola rotonda iniziale - dal prof. Frontoni, rispetto all’uso della tecnologia. Infatti, il virtuale non è un mondo demoniaco, ma un leale alleato purché usato con intelligenza. Insomma, una pietra posso usarla per provocare una ferita o per costruire una cattedrale. L’uso dipende solamente dai miei strumenti culturali.
Ritorniamo così al punto di partenza, al fare scuola: un tempo incerto è un’occasione di apertura verso il nuovo o di ripiegamento sulla storia già scritta? Una prospettiva è stata delineata dall’intenso intervento di Bernanrd Scholz, ossia: qual è il nesso tra tradizione e innovazione? Potremmo utilizzare il criterio degli Umanisti quattrocenteschi, cioè l’imitazione creativa. Guardo indietro per capire come io debba guardare avanti, non rimanendo schiavo di uno schema ma per scoprire nel mio tempo chi sono io. Il principio socratico del "Conosci te stesso" è sempre lo stesso, ma interroga in maniera diversa un greco antico e un giovane contemporaneo.

Probabilmente, la vera sfida che è emersa forte e prepotente dalla Convention è semplice come il pane: l’alunno/a non è un esperimento di didattica, ma una persona in cui c’è un bene da scoprire! Questo bene è frutto di relazioni sane, aperte e creative in cui docenti e discenti collaborano, sperimentano, rischiano. Del resto se il sapere perdesse il suo sapore, sarebbe un cibo sterile.
In questo mese di ottobre ricorre il centenario della nascita di Gianni Rodari che ci ricorda: "sbagliando s’impara è un vecchio proverbio. Il nuovo potrebbe essere che sbagliando s’inventa".

Allora, buona sfida e buona creatività a tutti/e!