N. 10 - Quale valutazione tra misurazioni e adempimenti?

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QUALE VALUTAZIONE TRA MISURAZIONI E ADEMPIMENTI?

Il dibattito in queste ultime settimane di scuola si è fatto appassionato, coinvolgente, ma non sempre chiaro e concreto. Non solo sulla riapertura a settembre e sulla formazione dei docenti, ma anche sulla libertà di educazione, sui modelli didattici e valutativi, sulle scuole paritarie. Sorgono molte domande, in particolare sulla valutazione di fine anno che si sta concludendo in questi giorni: è lo Stato che insegna o è il docente? È il Governo che fa gli scrutini di fine anno e gli esami, o è il consiglio di classe? Valuta l’insegnante o il suo “doppio” di cui parla Reboul?
Un episodio concreto può aiutare a illuminare tali domande e alcune riflessioni. In questi giorni un docente esperto di valutazione è stato interpellato da alcuni insegnanti del primo ciclo sul perché il Ministero non abbia indicato “come si dovesse valutare alla fine dell’anno”. Nella domanda di questi docenti è possibile ravvisare lo zampino del “doppio”, cioè di quella figura che si frappone al loro essere maestri nell’azione valutativa con pretese docimologiche in funzione dell’apparato burocratico.
Che significa? Il paradosso del “doppio”, introdotto nella valutazione pedagogica da Oliviero Reboul, si sostanzia in alcune affermazioni: "Il docente ha il suo doppio nel valutatore ". (…) “È un bene o non è che un ripiego?” la domanda in Reboul resta senza risposta…
Chi è questo “doppio”? Che volto ha? Quale rapporto tra lui e il docente? Quale fisionomia abbia costui si intuisce a poco a poco, insegnando e riflettendo sull’esperienza di ognuno di noi, valutato e “valutante”. Ci aiutano in questo anche le scienze umane, la psicanalisi, la letteratura, la sociologia, che da tempo hanno messo a tema “il doppio” nella personalità umana.
Nella scuola, complice la didattica a distanza d’emergenza (DADE, più che DAD), al termine dell’anno scolastico, il doppio è più che mai una specie di virus della valutazione originato dallo statalismo vecchia e nuova maniera. È un virus che costringe i docenti a considerare la valutazione in funzione del potere e non della persona. Parlo del “potere degli uffici” (bureau-crazia) che alla fine dell’anno si struttura intorno a regole impersonali ed astratte, procedimenti, ruoli immodificabili, adempimenti irremovibili e compilazione di molteplici documenti (un coordinatore di una classe del primo ciclo ne ha contato una quindicina!). Di fatto esso invade la prassi valutativa, avvilisce i docenti infettando l’insegnamento con le sue ossessioni del numero, della classifica, della statistica, dei format precostituiti e, pertanto, introduce una pressione ricattatoria spersonalizzante.
In questo Periodo cosa c'entra questa denuncia con le scuole? Moltissimo, perché la scuola a distanza, d’altro canto, ha fatto riscoprire il gusto e la possibilità dell’autonomia, della bellezza e dell’essenzialità dell’educazione mediante l’istruzione, e ha testimoniato come e quanto è prezioso il ruolo della scuola e dei suoi insegnanti - a livello territoriale - per famiglie e per imprese.
Per tutto quanto detto finora, situazioni, strumenti, contenuti del fare scuola, in questo tempo di Codiv 19, richiedono che il docente non accetti di ridurre il valutare a “pesare”, direbbe Charles Hadji, cioè a misurare secondo logiche burocratiche, ma si richiede che egli miri a “giudicare” nel senso di riconoscere ed attribuire valore - non di condannare - senza pagare pedaggio allo statalismo. Non abbiamo nulla contro lo Stato, ma non possiamo condividere una concezione ed una pratica che, ancora una volta, sottopone la scuola e i docenti a scelte calate dall’alto, magari tramite l’ultima ordinanza appena sfornata, e a prassi burocratiche che, di fatto, rinnegano l’assunto costituzionale della libertà di educazione e del libero insegnamento.
Ci preme sottolineare che il docente non è un impiegato statale, né può essere definito da diktat esterni o da adempimenti formali in riti stantii che solitamente prevalgono nella stagione degli scrutini. È suo diritto individuale e suo dovere pubblico, come afferma ancora la Costituzione, servire il bene delle persone che la società gli affida. Chi nel mondo della scuola impone prassi valutative spersonalizzanti, in nome del rispetto a regole tanto standardizzate quanto astratte che dovrebbero garantire l’uniformità del giudizio per l’intero sistema, di fatto amplifica il vizio del doppio di cui si è parlato sopra.
Rubriche e griglie sono strumenti convenienti per descrivere i risultati attesi, ma non sostituiranno mai il compito più delicato dell’insegnante, quello di valutare l’alunno “in una dimensione complessiva, sulla base dell’autonomo discernimento del consiglio di classe, senza distinte pesature che sarebbero arbitrarie”, come recita la recente OM a proposito della valutazione finale del primo grado del secondo ciclo.
La didattica a distanza ha mostrato le piaghe della scuola, ma sta facendo anche intravvedere le medicine: una reale autonomia, una concreta sburocratizzazione, una valutazione liberata. Ai governanti e all’apparato dirigenziale ed amministrativo basta fare un passo indietro, ai docenti entrare nel varco aperto dall’emergenza sociale e costruire una scuola pubblica - statale e non statale - che educhi istruendo e che, quindi, valuti per far imparare, capace di preferire sempre l’interesse dell’alunno a quello del sistema.