N. 3 - In dialogo sulla scuola "progressista"

ed_3_in_dialogo_sulla_scuola_progressista-1.pdf355 KB

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da un nostro lettore: “No, non è colpa di don Milani. È colpa di chi don Milani l’ha letto male. Perché se uno lo legge bene, si accorge che don Milani dice le stesse cose di D’Avenia. Prima che qualcuno pensi che io sia definitivamente impazzito, provo a spiegarmi.

Il primo riferimento è al pezzo comparso su Repubblica il 14 ottobre, una presentazione del libro di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi sui mali della scuola italiana. Che – a leggere l’articolo, mi riservo di leggere il libro di due autori che stimo moltissimo prima di parlarne con più cognizione di causa – discenderebbero in linea diretta dalla Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana.

Lessi per la prima volta la Lettera nei miei ormai remotissimi anni universitari, me ne innamorai, la riprendo in mano regolarmente, e la trovo tutt’altro che “anacronistica” (per usare l’aggettivo di Mastrocola-Ricolfi). Al contrario, è di un’attualità straordinaria. Perché il nocciolo di quella lettera non è – uso dei paroloni, poi mi spiego – sociologico, ma pedagogico. Vale a dire: è vero che don Milani accusa duramente la scuola italiana di essere classista, di essere fatta su misura dei Pierini – i figli delle famiglie borghesi con una cultura alle spalle – e di buttar fuori i figli del popolo. È vero che don Milani lancia quest’accusa, ed è vero che quest’accusa è vera. Era vera mezzo secolo fa, ed è vera oggi. Nei miei ultimi anni di insegnamento, in un istituto tecnico della periferia milanese, ho passato il mio tempo a cercare di dare una mano ai più smandrappati dei miei studenti, a cui la scuola sapeva dire solo “nota, sospensione, allontanamento”. Oggi come cinquant’anni fa, tale e quale.

Ma, oggi come cinquant’anni fa, il problema sociologico – la scuola che allontana i più poveri anziché favorirli – è figlio del problema pedagogico: la scuola insegna cose che non interessano. Nel senso profondo del termine: inter-esse, stare dentro, avere a che fare con l’esperienza umana reale degli studenti.
Che è esattamente l’argomento del pezzo bellissimo di D’Avenia di lunedì scorso (ecco il nesso, non sono ancora impazzito del tutto), in cui lui argomenta che la scuola insegna solo a ripetere le cose che l’insegnante ti dice, senza che questo incontri l’umano che c’è in te.

D’Avenia dice il vero, il problema della scuola è questo. Lo scrivevano già i giornalisti in erba di “Milano studenti” sessant’anni fa: “Ci insegnano un sacco di cose, ma non ce ne insegnano il senso”. Lo scrivevano così i ragazzi di Barbiana, più di cinquant’anni fa: “I filosofi studiati sul manuale diventan tutti odiosi. Sono troppi e han detto troppe cose. Il nostro professore non s’è mai schierato. Non s’è capito se gli vanno bene tutti o se non gliene va bene nessuno. Io tra un professore indifferente e un maniaco preferisco il maniaco. Uno che abbia o un pensiero suo o un filosofo che gli va bene. Parli solo di quello, dica male degli altri, ce lo legga sull’originale per tre anni di seguito. Sortiremo di scuola convinti che la filosofia può riempire la vita” (Parentesi: ho ritrovato questa citazione nel libro di Franco Nembrini Educare con Dante, meraviglioso percorso lungo la Divina Commedia alla scoperta di quel che può insegnare a un insegnante: altra lettura raccomandatissima).

Una scuola così non va bene per nessuno: né per i ricchi né per i poveri. Poi, i ricchi più facilmente hanno un contesto che li sostiene, sopportano pazientemente una scuola così, si diplomano e si laureano, mentre i figli dei poveri se ne vanno.
Ma allora – torno all’inizio – la colpa non è di don Milani: è di chi lo ha letto male. Di chi ha pensato che si potesse continuare a fare una scuola senza inter-esse, solo che alla fine promuoviamo tutti. Questa è la sfida, che aveva già lanciato il numero scorso della newsletter: il problema non è riportare nella scuola la severità; il problema è riportare nella scuola la realtà, e i suoi nessi con i desideri veri degli studenti”. (B.P.)