N.12 - Che cosa significa lavoro culturale

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È finalmente disponibile sul sito la relazione che ha fatto Costantino Esposito alla Convention del mese scorso (qui il link). E rileggerla è stata, di nuovo, un’esperienza: un incontro con parole che dicono una realtà, una vita, e perciò l’incontro – sia pur mediato da parole – con la vita che le ha generate. E perciò un’occasione per riguardare, alla luce di queste parole, la vita mia, di insegnante che da trent’anni e passa tutte le mattine entra in classe, e non ha mai finito (grazie a Dio!) di imparare quello che fa.

Impossibile sintetizzare la ricchezza dei contenuti, merita proprio di essere riletto parola per parola, anche per la capacità che il professor Esposito ha (ah, i filosofi….) di svolgere un percorso coerente, in cui ogni affermazione nasce naturalmente dalla precedente e conduce alla successiva; mi limiterò quindi a segnalare i nodi che più mi hanno costretto a domandarmi, per la millesima volta, quanto io sia così quando apro i miei libri o guardo i miei alunni e i miei colleghi.

«Se penso alla mia esperienza in questi anni – comincia – mi verrebbe da dire che vivere in un ambiente educativo significa esercitare un rapporto con i ragazzi all’interno del quale si rende possibile una scoperta. Non c’è rapporto vero senza scoperta; e non c’è scoperta vera senza rapporto. Non possiamo dividere questi due fenomeni: se togliamo uno dei due, entrambi rischiano di non avere più senso, e non capiamo cosa significhi essere protagonista in un ambiente educativo». Ed ecco subito sconfitta in partenza una tentazione permanente (mia, perlomeno), contrapporre, a seconda delle circostanze, i ragazzi (“l’importante è voler bene a loro”) e l’insegnamento (“io sono qui per insegnare, mica per fare l’assistente sociale”).

Passa poi ad aiutarci a comprendere il valore delle testimonianze che hanno aperto il convegno: «Qual è il senso proprio di una testimonianza, se non che in essa si rende presente un pensiero? Un pensiero – quello che emerge dalla testimonianza – che non è astratto dalla vita o slegato dall’esperienza, ma rappresenta una via per addentrarsi nella vita, una strada per capire l’esperienza: è un pensiero, cioè, che indica propriamente un metodo. Difatti, se una testimonianza si limitasse al contraccolpo emotivo, essa sarebbe senza pensiero, e quindi senza metodo; mentre quello che noi scopriamo con il coinvolgimento emotivo risulta davvero interessante quando porta a un incremento del pensiero e ad una chiarificazione della strada lungo la quale possiamo fare esperienza del reale». Come non ripensare all’affermazione di don Giussani, «Non fa storia l’esperienza senza dottrina e non fa storia la dottrina senza esperienza. La dottrina senza esperienza stabilisce soltanto una linea di gente che litiga. Ma senza dottrina non diventa storia neanche l’esperienza più impetuosa»? E come non ripensare, perciò, al lavoro di tanti che nell’esperienza incontrano colleghi delle posizioni più disparate, e che in quell’incontro generano un metodo, proposte praticabili per tutti?

«Ma la scoperta ha una sua logica propria – prosegue il testo –, che è la logica della domanda. La scuola è realmente un luogo in cui è possibile vivere solo perché è un luogo in cui si può imparare a domandare». «Niente è incredibile come una risposta a una domanda che non si pone», scriveva Niebuhr; e mi viene in mente un mio alunno che, in un compito in cui gli era chiesta una posizione personale su alcune questioni, inizia: «Premetto che non ho mai provato a mettere in discussione ciò che viene affermato da qualcuno che ne sa molto più di me, quindi non so cosa ne uscirà». Non aveva mai paragonato quel che si trovava davanti con se stesso. Che fatica ri-suscitare in ragazzi piallati da anni di studio meccanico l’idea che le loro domande siano importanti; ma senza questa fatica la scuola, propriamente, non c’è.

«Questo significa che, andando al nocciolo dell’esperienza, la prima questione per noi insegnanti non è appena quella di verificare se e quanto ciò che trasmettiamo o comunichiamo viene appreso dai nostri studenti, ma che cosa noi stessi, come insegnanti, impariamo insegnando. Questo è decisivo: che cosa io stesso imparo insegnando, che poi è anche l’unico modo per far imparare qualcun altro. Io posso insegnare veramente qualcosa mostrando come io la imparo». Che tentazione, quando uno è vecchio e ha anche altro a cui pensare oltre la scuola, entrare in classe e riproporre i soliti cliché. E poi mi chiedo perché ai miei studenti le cose che dico loro non interessano?

«Ma questo non per una retorica pedagogistica, ma perché questa logica del domandare o dell’imparare insegnando è, in qualche modo, un’esemplificazione straordinaria della struttura stessa della nostra esperienza del reale, quindi fa parte della struttura epistemologica del nostro insegnamento, in quanto ha a che fare con la struttura ontologica della nostra esperienza». Non c’è niente, mi permetto di banalizzare, che nella nostra vita non funzioni così: «Non c’è realtà senza il fatto che, in essa e con essa, sia già in gioco “io”. Il che non significa – mi pare evidente – che io possa ridurre a me la presenza del reale, nella sua alterità e differenza rispetto ai miei schemi, ma che la realtà “è” in quanto mi si dà, o – usando la parola che emergeva dalla Bottega di matematica – “accade”. Cosa vuol dire che la realtà accade? Non semplicemente che essa c’è come un dato irrelato, contro cui il nostro io va a “sbattere” (come pensavano i positivisti), ma che essa si manifesta nella sua verità perché in qualche modo mi tocca, chiede di me, fa nascere la mia domanda. La verità, cioè il significato ultimo delle cose, non è una cosa che ci inventiamo e appiccichiamo alla realtà, ma è il modo che la realtà ha di farsi scoprire da noi. Senza la mia attenzione, senza la mia disponibilità a questo lavoro, è come se la realtà rimanesse muta, che è il modo con cui normalmente essa viene concepita nel nostro orizzonte culturale più condiviso». Vale per i ragazzi? Ovvio. Ma vale per loro perché sono uomini, perché vale per me.

Esposito cita quindi Agostino, «una frase fulminante: “Forse che i maestri dichiarano che gli allievi devono apprendere e assimilare ciò che essi stessi, i maestri, pensano, piuttosto che le discipline che ritengono di dover trasmettere con le loro parole? E chi è così scioccamente bramoso del sapere, da mandare a scuola il proprio figlio perché apprenda ciò che pensa il maestro?”». No, evidentemente; ma «perché riconoscano il problema che è in gioco, e cioè il senso e la verità delle cose. E come lo si impara? Vale a dire (che è l’altro lato della questione), come lo si insegna, cioè come lo si lascia imparare?» Eh già, come lo insegno? Come una scoperta per me, come una scoperta che incrementa la coscienza che ho di me, del mondo, del significato di me e del mondo? E se no perché dovrebbe essere interessante per loro? Perché «sembra che i discepoli assentano a ciò che dice loro il maestro, ma in realtà ciò a cui danno il loro assenso non è ciò che dice il maestro, ma il fatto che ciò che dice il maestro ha permesso loro di venire fuori, di attivarsi».

E prosegue spiegando come Agostino mostri «in che modo la prima parte del titolo del nostro incontro (vivere nella scuola) si leghi con la seconda (una sfida alla libertà). Perché molte volte noi non riusciamo a esercitare la nostra ragione giudicante? Perché “gli uomini spesso hanno un amore asservito alle cose create e i servi non possono giudicare”. Cosa vuol dire che i servi non possono giudicare? Che per giudicare, per conoscere ci vuole libertà, bisogna essere liberi. I servi non sanno giudicare, non possono giudicare, perché ci vuole un minimo di distanza: non ci si può asservire alle cose. E quando ci si asserve? Quando si diventa schiavi delle cose? Quando l’amore umano diventa schiavo delle cose? Quando appunto l’io rinuncia al significato, e semplicemente utilizza le cose secondo ciò che ha nella sua testa, secondo le proiezioni della propria mente».

Basta, ho già scritto troppo e già troppo maltrattato tagliuzzandolo il testo di Esposito. Posso solo chiedere venia a lui e ai lettori, e suggerire di leggersi l’originale (qui il link), e magari di farne l’oggetto di un lavoro mai finito.